“ I giovani sono il futuro del mondo… se non li fermiamo prima!”
H.J.Simpson
La scuola. Il futuro di un paese. Temi che in questi giorni, o, meglio, in questi mesi, sono stati al centro del dibattito politico, della cronaca e, soprattutto, della massiccia mobilitazione dei cittadini. Forse per la distanza geografica da altri istituti importanti e da grandi città, la nostra scuola sembra essere meno coinvolta nel dibattito. Se la politica a volte può apparire, penso erroneamente, argomento lontano dagli studenti, o comunque argomento di cui non si dovrebbe parlare a scuola, questi provvedimenti in materia di pubblica istruzione ci riguardano direttamente: perché modificheranno profondamente le scuole che stiamo frequentando, perché modificheranno profondamente le università che alcuni di noi andranno a frequentare, perché dalla cultura e dalla preparazione tecnica dei cittadini dipendono la democrazia e il benessere (non solo materiale) del nostro paese.
Dunque, facciamo un po’ d’ordine: quali sono i punti salienti dei provvedimenti contestati?
In primis quelli elaborati più dal ministero dell’Economia che da quello dell’Istruzione: buona parte della cosiddetta “riforma Gelmini” è incentrata sulla ormai celeberrima “razionalizzazione”, ovvero su enormi tagli. Per far questo, nelle scuole, verranno tagliati 87.341 docenti e 44.500 non docenti ( segretari, bidelli, assistenti…) nell’arco di tre anni, riducendo le ore di lezione, aumentando i rapporti alunni/classi e alunni/docenti e, probabilmente, togliendo quasi tutti gli insegnanti di sostegno e le figure di aiuto e di integrazione dell’insegnamento canonico. La riduzione dell’orario colpirà le scuole di ogni ordine e grado riducendo l’orario settimanale in media di tre- quattro ore e sostanzialmente eliminando il tempo pieno alle elementari: dove verranno mantenute le attività pomeridiane, infatti, le ore in più rispetto alle 24 stabilite per legge non saranno curate come quelle scolastiche ordinarie, diventando sostanzialmente più “parcheggi per bambini” che momenti di formazione inseriti in una precisa logica pedagogica.
Nelle scuole elementari, inoltre, escluse le ore di inglese, dovrà essere un solo docente, il famigerato “maestro unico”, a condurre le lezioni. Ovviamente, dovendo coprire vari ambiti, non riuscirà più a programmare e curare il lavoro con la stessa precisione ed efficacia, limitandosi, complice anche la riduzione d’orario, a impartire solo gli insegnamenti fondamentali, a scapito di approfondimenti, tornando insomma ad insegnare a “leggere, scrivere e far di conto”. Alcuni sono favorevoli alla reintroduzione del maestro unico ricordando i bei tempi in cui c’era e tutti imparavano benissimo. Anche ammettendo che tutti gli alunni avessero un’ottima formazione, all’epoca il rispetto nei confronti degli insegnanti molto maggiore e le classi erano molto più omogenee. Oggi, infatti, nelle classi sono presenti più stranieri, che spesso hanno bisogno di un’alfabetizzazione (e non di una ghettizzazione come si ha intenzione di fare con le classi-ponte), disabili, giustamente integrati nelle classi e non più relegati nelle classi differenziali, che probabilmente si vedranno venir meno anche i pochi insegnanti di sostegno ora presenti, e bambini che hanno anticipato l’entrata alle elementari di un anno e che, soprattutto i primi anni, spesso presentano caratteristiche diverse dai compagni di classe a causa dell’età. Inoltre, se capitasse a una classe un insegnante incompetente? Cinque anni in cui la classe imparerebbe poco o niente?
Per le università, invece, si stimano tagli per 1,4 miliardi di euro nell’arco di cinque anni, che verranno effettuati riducendo progressivamente il personale docente con contratto a tempo indeterminato e costringendo le università ad abbassare il livello della formazione e/o a cercare finanziatori esterni, diventando quindi fondazioni.
Essendoci sempre meno posti di lavoro a tempo indeterminato, probabilmente, si amplificherà il fenomeno della “fuga di cervelli”, poiché i più preparati e competenti, non vedendo sbocchi lavorativi gratificanti, ma solo precari, tenderanno ad andare all’estero, diminuendo ancor più la qualità della ricerca, che già verrà messa a dura prova dal taglio dei docenti e delle risorse.
Le università si troveranno quasi costrette, assieme ad alcune scuole, come si augura Brunetta, a diventare fondazioni, mettendosi in gara, quindi, per attirare finanziamenti privati. I privati che finanzieranno gli atenei vorranno, però, un tornaconto; chiederanno, quindi, che vengano potenziati i corsi che servono alle loro aziende, togliendo risorse alle facoltà verso cui non hanno interessi, fin quasi a farle scomparire. Se i finanziamenti privati non saranno sufficienti, inoltre, le università dovranno aumentare le tasse e diminuire la qualità e la quantità dei servizi erogati. Al sud, dove entreranno ancor più prepotentemente in campo gli interessi clientelari e mafiosi e ci saranno probabilmente minori finanziamenti privati, le università se non scompariranno, diventeranno di bassissimo livello.
Questi provvedimenti più che a una razionalizzazione e a una maggiore qualità pedagogica e formativa porteranno a tagli indiscriminati e ad una svalutazione e distruzione dell’istruzione pubblica. L’Italia, che è già povera di materie prime e non può competere coi paesi emergenti in merito al costo del lavoro, abbassando ancor di più il livello di ricerca e di formazione dei lavoratori non sarà più capace di produrre prodotti (materiali e non) all’avanguardia e di qualità; la sua economia, quindi verrà ancor più messa in ginocchio. I cittadini, inoltre, avendo solo una formazione superficiale, potranno essere inebetiti ancor più facilmente dalle televisioni e dagli sproloqui quotidiani che vi vengono trasmessi, senza avere la possibilità di capire cosa stia succedendo.
Questi provvedimenti, insomma, uccideranno la nostra economia, la nostra democrazia, la nostra qualità della vita. Uccideranno il nostro futuro.
Giovanni Dolci
H.J.Simpson
La scuola. Il futuro di un paese. Temi che in questi giorni, o, meglio, in questi mesi, sono stati al centro del dibattito politico, della cronaca e, soprattutto, della massiccia mobilitazione dei cittadini. Forse per la distanza geografica da altri istituti importanti e da grandi città, la nostra scuola sembra essere meno coinvolta nel dibattito. Se la politica a volte può apparire, penso erroneamente, argomento lontano dagli studenti, o comunque argomento di cui non si dovrebbe parlare a scuola, questi provvedimenti in materia di pubblica istruzione ci riguardano direttamente: perché modificheranno profondamente le scuole che stiamo frequentando, perché modificheranno profondamente le università che alcuni di noi andranno a frequentare, perché dalla cultura e dalla preparazione tecnica dei cittadini dipendono la democrazia e il benessere (non solo materiale) del nostro paese.
Dunque, facciamo un po’ d’ordine: quali sono i punti salienti dei provvedimenti contestati?
In primis quelli elaborati più dal ministero dell’Economia che da quello dell’Istruzione: buona parte della cosiddetta “riforma Gelmini” è incentrata sulla ormai celeberrima “razionalizzazione”, ovvero su enormi tagli. Per far questo, nelle scuole, verranno tagliati 87.341 docenti e 44.500 non docenti ( segretari, bidelli, assistenti…) nell’arco di tre anni, riducendo le ore di lezione, aumentando i rapporti alunni/classi e alunni/docenti e, probabilmente, togliendo quasi tutti gli insegnanti di sostegno e le figure di aiuto e di integrazione dell’insegnamento canonico. La riduzione dell’orario colpirà le scuole di ogni ordine e grado riducendo l’orario settimanale in media di tre- quattro ore e sostanzialmente eliminando il tempo pieno alle elementari: dove verranno mantenute le attività pomeridiane, infatti, le ore in più rispetto alle 24 stabilite per legge non saranno curate come quelle scolastiche ordinarie, diventando sostanzialmente più “parcheggi per bambini” che momenti di formazione inseriti in una precisa logica pedagogica.
Nelle scuole elementari, inoltre, escluse le ore di inglese, dovrà essere un solo docente, il famigerato “maestro unico”, a condurre le lezioni. Ovviamente, dovendo coprire vari ambiti, non riuscirà più a programmare e curare il lavoro con la stessa precisione ed efficacia, limitandosi, complice anche la riduzione d’orario, a impartire solo gli insegnamenti fondamentali, a scapito di approfondimenti, tornando insomma ad insegnare a “leggere, scrivere e far di conto”. Alcuni sono favorevoli alla reintroduzione del maestro unico ricordando i bei tempi in cui c’era e tutti imparavano benissimo. Anche ammettendo che tutti gli alunni avessero un’ottima formazione, all’epoca il rispetto nei confronti degli insegnanti molto maggiore e le classi erano molto più omogenee. Oggi, infatti, nelle classi sono presenti più stranieri, che spesso hanno bisogno di un’alfabetizzazione (e non di una ghettizzazione come si ha intenzione di fare con le classi-ponte), disabili, giustamente integrati nelle classi e non più relegati nelle classi differenziali, che probabilmente si vedranno venir meno anche i pochi insegnanti di sostegno ora presenti, e bambini che hanno anticipato l’entrata alle elementari di un anno e che, soprattutto i primi anni, spesso presentano caratteristiche diverse dai compagni di classe a causa dell’età. Inoltre, se capitasse a una classe un insegnante incompetente? Cinque anni in cui la classe imparerebbe poco o niente?
Per le università, invece, si stimano tagli per 1,4 miliardi di euro nell’arco di cinque anni, che verranno effettuati riducendo progressivamente il personale docente con contratto a tempo indeterminato e costringendo le università ad abbassare il livello della formazione e/o a cercare finanziatori esterni, diventando quindi fondazioni.
Essendoci sempre meno posti di lavoro a tempo indeterminato, probabilmente, si amplificherà il fenomeno della “fuga di cervelli”, poiché i più preparati e competenti, non vedendo sbocchi lavorativi gratificanti, ma solo precari, tenderanno ad andare all’estero, diminuendo ancor più la qualità della ricerca, che già verrà messa a dura prova dal taglio dei docenti e delle risorse.
Le università si troveranno quasi costrette, assieme ad alcune scuole, come si augura Brunetta, a diventare fondazioni, mettendosi in gara, quindi, per attirare finanziamenti privati. I privati che finanzieranno gli atenei vorranno, però, un tornaconto; chiederanno, quindi, che vengano potenziati i corsi che servono alle loro aziende, togliendo risorse alle facoltà verso cui non hanno interessi, fin quasi a farle scomparire. Se i finanziamenti privati non saranno sufficienti, inoltre, le università dovranno aumentare le tasse e diminuire la qualità e la quantità dei servizi erogati. Al sud, dove entreranno ancor più prepotentemente in campo gli interessi clientelari e mafiosi e ci saranno probabilmente minori finanziamenti privati, le università se non scompariranno, diventeranno di bassissimo livello.
Questi provvedimenti più che a una razionalizzazione e a una maggiore qualità pedagogica e formativa porteranno a tagli indiscriminati e ad una svalutazione e distruzione dell’istruzione pubblica. L’Italia, che è già povera di materie prime e non può competere coi paesi emergenti in merito al costo del lavoro, abbassando ancor di più il livello di ricerca e di formazione dei lavoratori non sarà più capace di produrre prodotti (materiali e non) all’avanguardia e di qualità; la sua economia, quindi verrà ancor più messa in ginocchio. I cittadini, inoltre, avendo solo una formazione superficiale, potranno essere inebetiti ancor più facilmente dalle televisioni e dagli sproloqui quotidiani che vi vengono trasmessi, senza avere la possibilità di capire cosa stia succedendo.
Questi provvedimenti, insomma, uccideranno la nostra economia, la nostra democrazia, la nostra qualità della vita. Uccideranno il nostro futuro.
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