venerdì 22 febbraio 2008

Lo DICO io!

Non mi piace girare intorno alle cose, quindi andiamo dritti al punto: i Dico.
Ne parlano tutti, ne discutono tutti, ne dicono tutti…
La legge dei Dico è uno di quegli argomenti che t’impongono una scelta radicale: o stai dalla loro parte, o li disprezzi…
Solo che spesso queste scelte condizionano i nostri rapporti con gli altri, facendoci acquistare o perdere punti nella loro personale Top Ten dei Migliori Amici.
Finisce che, quando si parla con un cattolico super convinto e assolutamente anti-gay, viene da dire: “Ah, io, guarda, i gay non li sopporto proprio! Odio i Dico!”
Mentre con uno che vuole andare tutti i costi contro la chiesa, perché magari gli sta sulle palle il nuovo papa o il cardinale Ruini, si urla: “W i Dico! Li adoro, li amo, sono assolutamente d’accordo!”.
Oppure c’è chi ripete a pappagallo quello che ha sentito dire da suo padre, o chi è indeciso e dice che non gliene può fregare di meno.
Alla fine nessuno ha un’opinione propria.
Cosa assolutamente sbagliata, perché questo è un fatto che riguarda tutti: ognuno di noi, o dei nostri amici più insospettabili, potrebbe riscoprirsi attratto dal proprio sesso.
Non ci si può tirare indietro e cercare di proteggersi con un: “Tanto a me non capita”. E se capitasse, come ci si comporterebbe?
Bisogna capire il problema, prima di poter dire quello che si pensa.
E come fai a farlo se saltelli da un ideale all’altro senza capire chi ha ragione?
Analizziamo la situazione dalla parte del papa.
La famiglia è sacra, non si tocca e va protetta in tutti i modi. Infatti, cosa c’è di più importante nella nostra vita? La famiglia è l’appiglio più sicuro quando si rischia di cadere e non si può rovinarla con matrimoni o unioni tra due uomini o due donne. E questo è quello che più o meno tutti pensiamo, ma credo che sia spontaneo porre un’obiezione.
Ovvero: se di fronte a Dio siamo tutti uguali (considerato che siamo tutti fratelli), perché discriminare in modo così duro gay e lesbiche?
Non è uno scherzo. L’ho chiesto a un cattolico convintissimo, amico di mia nonna, che come idolo più grande ha Ruini: e lui, dopo averci pensato un po’ senza trovare una scusa decente, mi ha risposto: “Mah!”
E già, perché questo è un controsenso. Ragazzi ci siamo fregati da soli!
Siamo daccapo: salvare la famiglia, o i diritti delle coppie, omosessuali e non?
La risposta ce l’ho già. Non è un compromesso, né una mediazione; è soltanto la verità che secondo me conosciamo già tutti: possiamo salvare entrambi, facendo una semplice cosa che, però, per i giorni nostri è molto difficile da compiere. Non impicciarci delle cose private degli altri. Tirare il nostro mostruoso nasone fuori dalla vita delle persone che ci ruotano intorno.
Cosa me ne frega se il mio vicino va a letto con un uomo? O se la migliore amica della cugina di terzo grado della figlia della parrucchiera di mia prozia ha una fidanzata?
Meglio per loro che non sono più single! Intanto tutti gli altri eterosessuali del pianeta Terra possono continuare a sposarsi tranquillamente e fare tre dozzine di figli ogni decina d’anni.
Non credo che nessuno di loro si senta particolarmente minacciato dall’esistenza dei loro fratelli gay o delle loro sorelle lesbiche.
Nessun omosessuale ha mai minacciato mio padre (uomo sposato con donna) con una pistola all’uscita dal bar solo per la scelta che ha fatto, e le possibilità che succeda sono molto basse.
Forse mi sono persa gli ultimi gossip, ma non mi è giunta voce che il Presidente del Gay Pride abbia mai mandato una querela alla Chiesa per impedirle di celebrare i matrimoni.
Ricordiamoci del proverbio da nonno saggio: vivi e lascia vivere; e per una volta proviamo ad applicarlo sul serio.
Disegno di Mitarashi
Chiara Nizzi

Vivere è continua ricerca

Il primo risveglio è sempre difficile.
Quando si aprono gli occhi e la luce li ferisce come un ago di fuoco, l’istinto di ognuno è quello di richiuderli.
Ma si assume consapevolezza.
E si rimane immobili e perfettamente coscienti, occhi chiusi a osservare le macchie fastidiose che si rincorrono sulle palpebre, sapendo di doverli riaprire.
Di nuovo luce.
Luce sul mondo, luce per contemplarlo.
Per cambiarlo, dicono.
Cambiarlo, grazie tante! Ma sono solo io qua, con i miei occhi che piangono e la mia coscienza.
Che posso fare io?
Pensare.
Non servono proclami rivoluzionari, chiamate alle armi contro nemici ideologici.
La storia recente, per quel poco che ci può insegnare, dimostra che rivoluzione non fa mai rima con evoluzione. Semmai con involuzione.
Rivoluzione è illusione: chi la compie crede di poter cambiare qualcosa, di modificare il sistema; di fatto, però, modifica solo il nome e le modalità di questo. Sempre che succeda.
L a rivoluzione, nel suo senso comune, non porta a nulla perché la società all’interno della quale avviene è quella degli uomini, creatrice del modello precedente e successivo ad essa.
Se volete elogiare le azioni dei rivoluzionari e unirvi al loro ideale fate pure: ricordatevi, però, che l’unico merito di questi è di aver cambiato il gioco mantenendo le regole intatte.
Come cambiare, allora?
Come riuscire a trasformare davvero questo mondo?
La risposta è insita in noi: tornando alle origini, lasciando alle spalle qualunque forma di etica religiosa o politica, contemplando il mondo senza indossare il nostro travestimento abituale da esseri evoluti e superiori.
Vivere è continua ricerca: una vita regolata da dogmi che inebetiscono la curiosità non è degna di essere considerata tale.
Per cambiare il mondo mettetevi in gioco: fermatevi un secondo a considerare se tutte le vostre credenze e convinzioni sono davvero una base così solida come vi piace pensare.
Abbiate il coraggio di mettere in dubbio voi stessi, non il sistema creato dagli uomini; cambiando questo creereste solo un altro sistema umano e, in quanto tale, imperfetto.
La sola soluzione è ignorarlo.
Perché vale la pena vivere anche solo per il momento in cui la luce lacera l’occhio e distrugge tutte le convinzioni che, nella notte precedente la vita, abbiamo maturato; allora il dolore è immenso, ma non si possono più chiudere gli occhi.
Qualche lacrima colerà via, ma riusciremo finalmente a vedere il mondo.
Giuliano Gabrini

La scrittura tra sogno e società

In questi ultimi mesi molte cose sono accadute nel mondo. Ancora, non è calato il bisogno di urlare e plasmare la strada che il suono emesso deve indicare e percorrere nell’aria, tra noi, attraverso il mondo. Ovunque andiamo a zonzo con la mente, dai continenti nuovi e vecchi, americani, africani, eurasiatici, oceanici, dalle acque alle terre emerse sino alle stelle, pare proprio che non ci siano segni di una prossima fine del sogno.
Si continua a gettare uno sguardo oltre le montagne che circondano lo spazio in cui si vive, siano esse catene interne o esterne; si continua a tremare per un amore o un dolore, una gioia o una delusione infinita. Davanti alla pianura aperta quanto davanti al muro invalicabile della paura, della diversità, non si può non scendere a patti con la propria passione. La sensazione nuda che si prova non può mentire: ripartiamo da questo livello improvviso e incontrollato, svisceriamone le ragioni e l’orizzonte, portiamolo in superficie e riappropriamoci del luogo e del tempo della nostra vita costruendo ponti tra le profondità dell’io e le tante comunità che pulsano nella società.
La storia dell’umanità è fatta di muri, che separano laddove ogni speranza di convivenza è sepolta e impraticabile, senza compiere sforzi per perseguirla. Così ora si dice che c’è bisogno nuovamente di muri, così da aspettare un prossimo tentativo di contatto che resterà disatteso. Viene il sospetto che i ponti preesistenti siano stati smantellati e che quelli che si provano a costruire restino a metà, incompiuti. Quanto siamo presenti davanti ai nostri problemi e ai problemi della collettività? Sono prodotti della stessa fattura, giacché se mettessimo un neonato in una stanza buia per sempre, non avrebbe una memoria culturale, non saprebbe i colori, la differenza tra giorno e notte, avrebbe altri problemi di quelli che ogni giorno affrontiamo nel cuore. I nostri crucci sono risultati sociali, i nostri interessi orientati dalla società. Possiamo impaludarci nella testardaggine individualista, ma anche i nostri pensieri sono culturalmente condizionati e influenzati. Siamo destinanti a vivere in comunità, a misurarci con l’alterità.
La scrittura si pone sulla soglia, nel mezzo, tra l’io e il collettivo, vuole sondare quanto si estende la pianura, quanto è alto il muro, quanto profondo e ponderato deve essere lo sguardo per valicare i confini e mettere insieme una dopo l’altra una serie di mattoni utili a dare forma a un ponte. La scrittura è un compendio inesauribile da scoprire e da completare, per attraversare il mondo dove anche in questi ultimi mesi sono accadute molte cose e dove si accatastano emozioni contrastanti, spettri nucleari, surriscaldamenti imminenti.
Andiamo alla ricerca della verità e sappiamola con coraggio confutare innanzi alla prova dell’esperienza; osserviamo, cerchiamo di declinare i principi ideali e i sogni con l’azione. Nell’urlo vi è già in stato embrionale la possibilità di una svolta, e allora pensiamo. I saggi orientali dicevano che tutto ciò che siamo sorge con i nostri pensieri, con i nostri pensieri costruiamo il nostro mondo. Tra un pensiero e la sua traduzione in espressione, la distanza è breve.
Da qui si riparte per scoprire i principi ideali e si guarda a sogno e al presente che avanza con il racconto di un attimo, nella foresta, vissuto da un padre e una madre: “Un giorno, guardarono nelle ombre e cantarono piano una canzone alla notte. Diceva: ‘Sogna per il mio bambino, così un giorno avrà il potere’”.
Scriviamo, sogniamo e viviamo per il futuro che arriva, per le radici che ci sostengono, per gli incontri che faremo “come se vivessimo per sempre, come se dovessimo morire oggi” disse una volta un amico comune.

domenica 10 febbraio 2008

Metamorfosi. Come e perchè innamorarsi della filosofia

Filosofia…mi dicono essere una parola greca. Dicono nasca nel VI° secolo a.C. Miriadi di persone chiamate filosofi mi appaiono a una prima occhiata così, come dire...stupidi.
La domanda che mi sono fatta nell’ascoltare la prima lezione è stata: “Come può una persona complicarsi così la vita???”. Mille domande, mille contraddizioni, mille teorie.
Poi man mano che il tempo passa ti rendi conto di quanto sia folle non dedicarsi a tale disciplina così straordinariamente complicata e interessante. Così stronza da farti sentire tanto stupida quando manca qualcosa ai tuoi ragionamenti, quel pezzo di un puzzle infinito che non riesci a combinare.
Ma è proprio quando trovi la combinazione giusta che non riesci a fare più a meno di ragionare per trovare il prossimo pezzo. Emozione.
Già, come l’emozione di un bambino alla scoperta di un nuovo gioco, come quella dell’adolescente che si guarda attorno e capisce di essere qualcuno e ricerca la sua identità in ogni dove e in ogni quando.
Una professoressa, una classe, un quaderno e la tua mente che viaggia, che deve completare un ragionamento che sembra impossibile. Come le montagne russe, l’attesa che ti agita, la salita che ti crea un vuoto, senti che non ce la puoi fare, vorresti scendere, ma poi la velocità cresce e ciò che ti circonda non è che la tua voce che esce dalla tua bocca intensamente
e scarica tutte le ansie e le paure. Adrenalina, sì, proprio lei.
Quando scendi sei impaziente di rincominciare. Nuovo giro stesse emozioni...anzi sempre di più. Le tue corde vocali vibrano così forte che non hai più voce, ma ne senti ugualmente il bisogno. Così è la filosofia...un giro interminabile dentro di te e in ciò che ti circonda. Una continua ricerca e una continua sorpresa. La filosofia è quella cosa tanto fastidiosa quanto meravigliosa. Così astratta quanto concreta per il tuo cuore e la tua mente. Così una disciplina da libri quanto tua compagna personale di vita. Come posso dunque esprimere ciò che sento se non con il suo stesso significato.. amore per il sapere. E’ proprio questo la filosofia, è un infinita valle in cui mi perdo ogni giorno dove i miei pensieri sono liberi da vagare senza gli schemi di ogni giorno.
Chiara Magnani

Perchè ridiamo?

La risata di un uomo è dovuta ai sentimenti che in quell’istante prova la persona. Volete sapere i sintomi? Ecco qua. Si fa un profondo respiro. Si getta la testa all'indietro.
I muscoli del volto, del collo, del diaframma, dell'addome si tendono e dalla bocca esce un suono regolare, esplosivo a irrefrenabile. Quando il fiato è esaurito, si inspira altra aria a le variazioni sillabiche riprendono. Se sono vigorose e intense, i muscoli di mandibole e addome cominciano a dolere e gli occhi a lacrimare.
La risata è un linguaggio universale che conoscono addirittura le scimmie primate. Queste sono parole di Charles Darwin: "Sia negli uomini sia nei primati la risata è legata a un atteggiamento giocoso, anche se in questi ultimi è sempre prodotta da un contatto fisico, come il solletico o la finta lotta".
Il modo in cui si ride è però diverso per tutti: chi emette acuti stridi, chi cornacchia, chi fa fatica ad emettere suoni e chi invece ha una risata fortemente contagiosa. In genere ridiamo quando siamo predisposti, di buon umore, allegri. Esistono infatti diversi tipi di risata.
In genere, si tratta di una risposta emotiva di fronte all'esperienza del comico, o di sensazioni intense di allegria, piacere, benessere, ottimismo. Tuttavia, la risata può anche avere il ruolo di sfogo di emozioni di segno opposto, come la tristezza e la rabbia (in tal caso, nel linguaggio comune, si parla di risata nervosa).
Ci sono anche cause fisiche che possono stimolare la risata a prescindere da qualunque contesto emotivo; per esempio il solletico o l'inalazione di ossido di azoto (detto proprio per questo motivo "gas esilarante").
Nella storia diverse persone importanti parlarono della risata: Platone pretendeva che fosse regolamentata nella sua Repubblica perché poteva disturbare l'ordine costituito; Socrate ne raccomandava un uso parsimonioso, come il sale; Aristotele sosteneva che distinguesse l’uomo dalla bestia; Pitagora invece la proibiva ai suoi discepoli; Sigmund Freud la vedeva come una valvola di sicurezza per sfogare energia repressa.
Alcuni medici sostengono che aumentando il battito cardiaco faccia male, ma penso invece che sia il gesto più sano e liberatorio che una persona può compiere.
Samuele Pignedoli

Tempo perduto. ...e rintracciarvi una parvenza di senso

E' rinchiusa nei libri obbligatori e troppo poco sfogliati dagli studenti, nei grandi saggi degli autori del passato. Il passato è il protagonista della filosofia: oggi le discussioni universitarie vertono sui problemi d'interpretazione, sulla contraddittorietà o meno dei maestri pensatori; insomma si rigirano su se stesse senza attualizzare!
Ma l'attualizzazione non basta: si dovrebbero avere nuove intuizioni per riformulare i possibili modi di vivere, fornire alternative a una realtà che non soddisfa, per migliorare e sperare. La filosofia dovrebbe ricondurre l'uomo verso quel senso tanto bramato, dovrebbe guarirlo dalla sua alienazione.
Il progresso tecnologico oggi rende l'uomo apparente signore della terra. Questo suo voler spadroneggiare con tanta dimestichezza e invasività non viene ridimensionato da nessuna forza, da nessun giudizio positivo che salvi l'uomo dal perdersi nelle sue stesse macchine. Manca il perchè sulle azioni: l'intera società si preoccupa solo del come si fanno le cose e se dei perchè esistono sono talmente lontani dal loro oggetto di appartenenza che risultano incredibili e poco attendibili. Sia che si tratti di tecnologia, politica, economia, si parla sempre di agire per il progresso, per la pace, la democrazia, l'uguaglianza.
Tutti questi baluardi funzionano a mo' di paraocchi: sono valori che la storia è riuscita ad affermare dopo tanto tempo, dopo anni di lotte, sacrifici, e che oggi nel mondo occidentale sono palesati come assoluti e inconfutabili. Sono un ottimo scudo difensivo, ma siamo sicuri che la società rispetti questi valori con i fatti?
Malauguratamente manca il tempo per rifletterci, perchè l'agenda presenta una tabella di marcia da rispettare, e l'outsider che pensa è considerato un'inutilità. Quando si deciderà di ascoltare anche il suo pensiero e considerare la sua filosofia quella apportatrice di senso?
Quando si screditeranno le false filosofie dettate dall'alto per giustificare magari decisioni politiche, azioni bellicose, apparati tecnologici invasivi ma votati al progresso?
Se la cultura del concedersi una pausa di riflessione soli, con se stessi, potesse entrare nelle case, scorrere nei cavi elettrici, comparire sullo schermo del TV, far squillare telefoni e illuminare computer, catalizzare le connessioni vere e autentiche tra persone in carne ed ossa, allora la tendenza del mondo verso l'alienazione invertirebbe il proprio senso di marcia e saremmo veramente padroni delle nostre tecnologie. Non attingeremmo le verità di plastica dagli assurdi media di oggi, ma avremmo tutti il tempo per rintracciare i frammenti di senso.
Diletta Pignedoli

Tempo perduto. Come ricucire i propri brandelli...

Le pause nella vita di un giovane occidentale in carriera non si trovano mai sole: si accompagnano sempre a un oggetto, a un'azione, a una simbolica occupazione. Esiste la pausa-pranzo, la pausa-caffè, la pausa-sigaretta. Anche attraverso le pause si è voluto trovare, nel fissare appuntamenti e impegni, la cura all'ultima grande epidemia di peste: la paura di rimanere soli.
Chi è che impedisce alle pause di essere libere e svincolate? Di essere se stesse e di non fare altro che il puro niente? Sembrerà pur banale, tipo risposta da quiz-show, ma che non sia il consumismo, l'industria a imporci sempre e comunque la produttività. Solo colui che produce è utile alla società e il suo lavoro risulta tanto più pregiato quanto più è consistente.
Infatti, chi oggi non si sentirebbe in colpa a produrre quel cosiddetto "niente" per un pomeriggio intero? Un soggetto del genere verrebbe considerato un'inutilità.
E l'inutilità cosa pensa? Quali sono le meditazioni di chi resta in pura pausa, di chi ha il coraggio di affrontare se stesso e opporsi ai meccanismi aggrovigliati che ci costringono alle nostre agende? Cosa "produce" il prode nullafacente che si disfa della propria uniforme e della propria etichetta per recuperare il senso?
Pensa probabilmente, da saggio outsider qual è, che l'uomo del nuovo millennio sta perdendo la sua natura: ha troppa storia da ricordare dietro di se e il relativismo, che si è così faticosamente e meritatamente conquistato, lo destabilizza. Invece che apportare fantasia e interessanti diversificazioni di modi e stili, frantuma la realtà in troppi individualismi scalpitanti.
Comprende anche, il nostro vecchio outsider, l'impossibilità di ricomporre tutti i pezzi di mondo per rintracciare il senso, quella sete di verità e certezza che tutti bramano. "I testi si moltiplicano e i linguaggi evolvono il proprio sincretismo. Il senso è rintracciabile ovunque, in particelle, segmenti, manifestazioni di culture che sono frammentarie entità alle periferie del mondo".
Qualcuno ha detto che nel nostro tempo la storia ha raggiunto il suo capolinea: è finita l'epoca delle Grandi Narrazioni, dei grandi sistemi di pensiero che, pur nella loro azione passivizzante, davano un ideale in cui credere. La filosofia dell'utopia, della rivoluzione, la luce che ci porta fuori dalla caverna dell'ignoranza, che da' vita, dove è finita?
Diletta Pignedoli

venerdì 1 febbraio 2008

EFFETTO FARFALLA - Racconto surreale di azione-reazione (II parte)

Nearco ce l'ha con Shari.
Nearco ce l'ha un po' con tutto il mondo, in realtà, ed è comprensibile dato che quando è nato gli hanno appioppato un nome del cazzo.
Vorrebbe chiamarsi Ulisse, e per questo ha ventidue quaderni con scritto Ulisse in ogni pagina, dodici volte per riga. Vorrebbe chiamarsi Ulisse, ma si chiama Nearco, e per questo ce l'ha col mondo intero.
In particolare con Shari.
Noi non giudichiamo, siamo qui per leggere, ma non possiamo negare di essere un po' solidali con lui. Oltre alla disgrazia anagrafica di avere ereditato il nome di un obliato condottiero macedone, ci instilla simpatia la proverbiale sfiga di Nearco. Vogliamo dargli torto? Torni a casa un po' prima del solito e trovi tuo fratello – nel tuo letto fresco di bucato – a studiare l'anatomia della tua ragazza.
Non è che di cose logiche da fare ce ne fossero molte, in quel frangente, dopo aver scagliato contro il muro un po' di oggetti fragili e dopo aver buscato la tradizionale sbronza da cuore spezzato.
Il giorno dopo che si fa? Ci si taglia i capelli
si dipingono le pareti
si mangia un chilo di gelato
si guarda un film strappalacrime
o si ammazza la fedifraga.
Non è che di alternative ce ne siano molte di più.
Del resto la famiglia è sempre la famiglia, i parenti mica puoi venderli su eBay.
L'etica prima di tutto: eh (l'etica, se ci fosse più etica al mondo), Nearco lo pensa sempre.
Abbiamo vittima, movente e colpevole. Ma noi vogliamo veder scorrere il sangue, o no?
Bene, seguiamo Nearco.
Lui è tutto tranne il tipo che rovescia il caffè, quando si alza la macchinetta è già accesa da sedici minuti, esattamente il tempo che serve per scaldare l'acqua ma non troppo. Tiene premuto il pulsante giallo per quattro secondi, esattamente il tempo che serve per avere un caffè ristretto ma non troppo. Dopo avere posizionato la tazzina nella lavastoviglie e avere avviato il programma tre – lavaggio profondo ma non troppo – decide di andare a fare due passi.
Non andrà in biblioteca oggi, perché sa che incontrerebbe Shari e non ne ha voglia, è ancora presto. I cuori feriti hanno bisogno di tempo e spazio, si sa.
Ma non troppo.
Ricorda perfettamente ogni mossa di Shari, sa che ogni giorno prende l'autobus delle 7:38 per scendere in centro. Di solito anche Nearco prende lo stesso autobus, ma oggi decide di fare uno strappo alla regola. Nearco è tranquillo, dopo aver pianificato una minima variazione sul tema che gli consentirà di non incrociare gli occhi di quella puttana.
Se la vedo la ammazzo, ma sto bene, perché non la vedrò.
Proprio lui, che ha sempre tutto patologicamente sotto controllo.
Cosa direbbe, se sapesse che lei sarà in ritardo e lui sarà costretto a vederla con lo stesso sorriso stronzo di sempre, non cambiata di una virgola e lui si ricorderà improvvisamente di avere un coltello a serramanico nella tasca interna della giacca?
Riderebbe, Nearco, lui che sa sempre come andranno a finire le cose.
Riderebbe di sé, se credesse anche solo per un momento che una coincidenza del genere possa avere luogo proprio oggi. Non sarebbe da lui, lui ha sempre tutto sotto controllo.
Lui crede fermamente che alle 7:48 Shari non sarà lì, quindi non dedica nemmeno un atomo di pensiero alla possibilità di trovarsi davanti a lei, vedere sul suo collo segni stranieri e le dita spoglie di anelli.
L'ultima - e forse la prima - cosa che lo lega a Shari è l'inconsapevolezza.
Inconsapevolezza del copione di vittima e carnefice che interpreteranno tra poco, inconsapevolezza del loro destino di stelle della cronaca locale per i prossimi sei giorni, fino a quando non saranno sostituiti da altri Bravi Ragazzi Morti Tragicamente e altri Cattivi Ragazzi Problematici Non Abbastanza Compresi dalla Società.
Nessuno di noi ha difficoltà a mettersi nei loro panni, vero?
Voglio ritagliarmi una giornata per me, andare al parco a leggere un libro, non pensare alla mia ragazza che mi ha tradito con mio fratello... E finisco per ficcarle una lama in mezzo alle costole, e bagnarmi le mani del suo sangue.
Non è una cosa che si possa progettare a colazione, davanti a una tazza di latte parzialmente scremato piena di cereali poveri di grassi saturi e ricchi di ferro ma non troppo.
Se non che.
Se non che, i cereali poveri di grassi saturi e ricchi di ferro ma non troppo sono quasi finiti. Nella scatola ce ne sono 27 grammi, e una colazione sana ed equilibrata ne prevede 35.
Nearco sbuffa, e va a prendere una scatola nuova.
Dopo aver aggiunto gli 8 grammi necessari può finalmente iniziare a mangiare, seguendo le trentatré masticate necessarie a una sana digestione. Mangiare in fretta equivale ad allacciarsi un cappio di seta al collo, così dicono gli esperti.
Un minimo dislivello, ma sa che arriverà puntuale all'autobus delle 7:48.
Lui non arriva mai in ritardo, per questo non affretta il passo uscendo di casa.
Poi vede l'autobus delle 7:48 che si sta fermando, facendo gli ultimi metri di corsa ce la può fare.
Vede anche Shari, che si appresta a salire.
Non è possibile, lei non deve essere lì. Invece c'è, e non si è nemmeno accorta di lui.
Nearco attraversa la strada di corsa, infilando inconsciamente la mano in tasca, dove sa che c'è il coltello. La raggiungerà prima che salga.
Ora sa. Sa che sta per ucciderla, non può più evitarlo.
Corre ma non troppo, per paura di cadere.
Lasciamolo un attimo fermo.
*****
Nemmeno Sarah sa, ma lei è più tollerante.
Non impreca contro la barista che tarda a darle il resto, né si arrabbia per il tacco che si rompe sul selciato di viale Mazzini.
Lei la prende con filosofia – salvo poi ricordarsi che ha un cartellino da timbrare, e di conseguenza accelerare a tavoletta dopo essersi accorta di essere in ritardo marcio.
Accelera su una via quasi deserta, ci passa giusto qualche bus alla mattina, cosa vuoi che succeda.
Succede che le sbuca davanti un ragazzo sulla ventina, che sta correndo per non perdere l'autobus. Sembra che abbia qualcosa in mano, forse un coltello, ma è difficile dirlo. Sarah non riesce nemmeno a vedere che faccia abbia, prima di vedere il suo cranio a pezzi contro il parabrezza.
Shari osserva tutta la scena da fuori, inorridita.
Condannata da un caffè e salvata da un tacco e una manciata di cereali.
Assurdamente libera. Ma non troppo.
(Foto di Ronja N. / youthphotos.eu)
(Disegno di Mitarashi - Gaia Online Commission)

Barbara Palladini

venerdì 25 gennaio 2008

This Is The End, la tragedia da Jim Morrison a Sofocle

“Fuck your mother, kill your father!”: così recita la conclusione di The End, famosa canzone dei The Doors e colonna sonora del film di Francis Ford Coppola Apocalypse Now.
Non è come può sembrare una squallida perversione nata dal genio maledetto di Jim Morrison, ma deve essere letta come uno dei tanti richiami alla letteratura presenti nei testi musicali di ogni genere.
Questo breve verso ci riporta al mito dell’Edipo Re: la tragedia di Sofocle narra di un re che, dopo aver scoperto di aver ucciso suo padre e sposato sua madre, si acceca per punirsi.
Jim Morrison reinterpreta questo passo caricandolo di un significato ancor più profondo.
“Kill your father” significa LIBERATI da tutti gli insegnamenti che ti sono stati inculcati da bambino, LIBERATI da tutti gli schemi che per un qualsiasi motivo non sono tuoi, LIBERATI da tutto ciò che ti impone questa società malata dove il metro di giudizio non è altro che il denaro e l’aspetto esteriore.
“Fuck your mother” in realtà significa: “torna a quella che è la tua natura, vivi secondo natura”.
Si rivolge alla madre perché simbolo di fecondità. Della madre come della natura ti puoi fidare, non ti mentirà mai. Allora toccala, vivila, godila, torna all’essenza. É carne, la puoi assaporare, è concreta, terribilmente concreta forse spaventosamente concreta.
Sarà per questo che ci allontaniamo da lei?
Questa forma provocatoria in cui è espresso il concetto – e la base musicale quasi ultra-terrena su cui si innesta – la rendono simile ad una formula ipnotica: le parole kill e fuck si lanciano – volendo richiamare un’altro grande cantautore, Bob Dylan – come una pietra che rotola, come un macigno nella propria testa. Esse penetrano nelle proprie sinapsi e confondono, possiedono.
Quando la canzone finisce, dopo 10 minuti, ti ritrovi stremato e hai ancora questo masso che ti schiaccia, non se ne vuole proprio andare. Senti che te ne devi liberare al più presto, allora sentirai il bisogno di spogliarti di ogni schema, di immergerti nella tua natura e di scoprirne l’essenza, come se fosse l’unico modo per liberarsi da questo peso e ritrovarsi.
Questo era solo uno dei tanti esempi che si possono trovare a conferma del risonante parallelismo tra musica e letteratura.
La poesia non è solo noia come c’è la vogliono far passare a scuola, ma è soprattutto passione!
(Foto di Yamilka Rosa / flickr.com/photos/iamilk/)
(Foto di Marco De Stabile / flickr.com/photos/d_e_s_t_a/)
Francesco Corradi

Rewind: una mattina in corriera, ritorno

Finita una pesantissima – non che tristissima – giornata di scuola, si riprende felicemente la strada per la fermata della corriera. Nell’attesa si formano gruppi di ragazzi, più rilassati e sorridenti, ma con i segni del morbo della stanchezza così evidenti che hanno ancora tanta voglia di ridere, scherzare e prendersi in giro.
Le chiome sono più spettinate, le mani disegnate e con scritte, ricordo di un compito in classe. Qualche volta, alla fermata, vivo la brutta sorpresa di incappare davanti a mia madre, sapendo che prima o poi mi farà un interrogatorio di terzo grado: mi segue con lo sguardo, e allora la mia strategia è fare finta di non vederla e di non conoscerla.
Mi allontano anni luce. Ecco che sbuffando arriva la corriera, la nostra nave ammiraglia. Tutti, correndo e spingendosi, cercano di accaparrarsi il primo posto disponibile, mentre l’autista cerca di mantenere la calma. Vedo qualche faccia stralunata: qualcuno – il più secchione – è deluso per un voto più basso; qualcuno è contento per un successo scolastico ottenuto.
Dagli ultimi posti inizia una sorta di karaoke. Dai finestrini si saluta il fidanzatino o la fidanzatina, che sono ancora sul marciapiede.
Lo stomaco borbotta: non vedo l’ora di mettermi a tavola, già sento il profumo di arrosto che mia mamma ha preparato il giorno prima. Durante il viaggio cerchiamo di non parlare più di scuola, di professori, di interrogazioni; chi invece non ne fa proprio a meno, viene un po’ canzonato.
Nel viaggio, che mi sembra infinito, con altri trovo qualche passatempo: si ascolta musica condividendo l’MP3 con il vicino, si gioca al cellulare, si parla di calcio e c’è chi usa il portatile.
Dopo la curva di Casa Giroldo, nei pressi di Pantano, mi preparo a scendere giacca al vento. Vedo già la panda azzurra di mio padre, sembra un giocattolo: lui canuto e stanco, si aggira con fare sospetto fumando un buon toscano e sorride al mio arrivo.
Sui sedili qua e là ha sparso i quotidiani, bozzetti e fogli che subito sistema per fare posto a me e ai miei amici per riportarci a casa.
Sulla salita di Pianezzo – non vi sbagliate, sempre nei pressi di Pantano – la panda sbuffa e arranco. È proprio il macinino: io lo chiamo così.
(Foto di Sara Fabbiani)
Sebastiano Beretti

EFFETTO FARFALLA - Racconto surreale di azione-reazione (I parte)

Come darle torto.
Come mai avrebbe potuto immaginare, Shari, che in quella assolata mattina stavano fiorendo i primi germogli di un casino. Forse, se avesse saputo con precisione cosa la aspettava, avrebbe fatto qualcosa di più elevato, come scrivere una poesia. Non era bello pensare che l'ultima cosa che aveva fatto prima di uscire di casa fosse stato lavarsi i denti con espressione da zombie e sputare il dentifricio con veemenza contro la ceramica bianca del lavandino.
Bianca, sì – innocente, veicolo di abluzioni mattutine purificanti.
Ma cazzo, come si fa a lavarsi via il destino.
Lei non sapeva, bianca anche lei della sua ingenuità disincantata, e letale.
Il caffè, forse, segnò il confine. Il fatto che fosse il capro espiatorio più evidente non significava che fosse l'unico. La necessità di trovare un atomo di colpa, forse, divenne la scintilla dell'imputazione.
Se solo un ragionamento a priori fosse piovuto dal lampadario sul tavolo della cucina, magari.
Ma come chiedere a lei, appena svegliata, di sciogliere nel caffè un cucchiaio di se e uno di ma al posto del solito zucchero raffinato, e mescolare tutto con un condizionale.
In un certo senso lei è morta bevendo il solito caffè di ogni giorno.
Ora sappiamo tutti quanti che Shari è morta, quindi eviteremo inutili climax di tensione e potremo narrare con tranquillità prima di arrivare al dunque.
Ma adesso non guardiamola con la compassione di chi vede la propria nonna spegnersi in mezzo alle coperte di piuma d'oca, insomma, facciamo che non vi abbia detto niente. Guardiamola mentre avvicina le labbra alla tazza e facciamo finta che non stia firmando la sua condanna a morte con una bic nera da cinquanta centesimi.
Fingiamo pure che sia stato ininfluente, il capriccio neuromuscolare che ha fatto sì che quel caffè se lo sia rovesciato addosso. Mettiamo da parte la costituzione gerarchica degli eventi e narriamoli come un filo che si srotola da solo, senza trainare né essere trascinato da altri fili.
Facciamo un passo avanti, non c'è voluto molto a buttare la maglietta sulla catasta di biancheria sporca. È indispettita dall'imprevisto, ma non tanto quanto dovrebbe. Quello che risuona nell'aria è poco più di un vaffanculo sibilato nella fessura tra gli incisivi. Finisce il poco caffè rimasto nella tazza e decide di prepararne dell'altro.
Forse è il clac della cialda che si incastra nella macchinetta. Forse è il gorgogliare sommesso dell'acqua che fluisce nei tubi, il requiem di Shari. Niente di edificante, in ogni caso. Non lo sappiamo, né lo sa lei.
Bastano quei due minuti a far sì che lei si attardi e perda l'autobus delle 7:38.
Basterebbe questo a spiegare, ma abbiamo deciso di non crederci, ricordate?
Quindi, usciamo di casa. Seguiamola mentre – poco convinta – dice a se stessa che se allungasse il passo ce la farebbe a prendere l'autobus in tempo. Si incita a fare in fretta, ma con poca autorità, come se una microscopica parte di lei avesse già gettato la spugna. Cazzate. È solo stanca, ha sonno, ieri sera ha bevuto un martini o due di troppo. Noi non crediamo all'onniscienza causale, ricordate?
Fretta e stanchezza si annichilano, uguali e contrarie, e Shari cammina al solito passo, solo più teso e nervoso. In fondo ha motivo di avere lo stomaco attorcigliato, perché oggi ha un esame che non può non passare. Se avesse studiato di più non starebbe andando in biblioteca a ripassare, ma i condizionali non ci interessano, vero? A noi interessa vederla imprecare contro i trasporti pubblici, che sono in perfetto orario solo oggi che non dovrebbero, che seguono i dettami di un Fato umorale, che non perdonano l'onta del caffè rovesciato. Che il telefono abbia svegliato l'autista della linea 4 due minuti prima, stamattina...? Poco importa, perché è lì in beffardo anticipo, e Shari è dall'altra parte della strada, duecento metri indietro, e non ce la farà mai a raggiungere la pensilina prima che riparta. Non si illude di essere diventata nottetempo una scattista, e oltretutto ha una borsa pesante a tracolla. Rinuncia, prenderà la prossima.
Si appoggia al palo della fermata con il fiato corto, aspettando le 7:48 che non vedrà mai.
La tabella degli orari, protetta da una cornice di plastica e piena di condensa piovana, è piuttosto scarno come epitaffio.
Inizia a pensare a quanto fosse pedante lui, con la sua puntualità svizzera e intransigente. Quando viveva ancora con lui non arrivava mai in ritardo, il caffè non si rovesciava e i vetri erano sempre puliti. Si perde nell'immagine di lui che ha nella mente, troppo ritoccata da mesi di assenza per conservare una parvenza di credibilità. Questo rende Shari poco interessante per noi, passiamo altrove. Tanto lei è lì che aspetta, e niente è più statico di qualcuno in attesa.
(Foto di Davide Giannella / flickr.com/photos/davideg/)
(Disegno di Mitarashi)
(Fine prima parte)
Barbara Palladini

mercoledì 23 gennaio 2008

Pensiero Due: Primo Levi

Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi, è nell'aria.
La peste si è spenta, ma l'infezione serpeggia.
Sarebbe sciocco negarlo e negarne i segni:
Il disconoscimento della solidarietà umana,
L'indifferenza ottusa o cinica per il dolore altrui,
L'abdicazione dell'intelletto o del senso morale davanti al principio d'autorità,
E principalmente, alla radice di tutto,
Una marea di viltà, una viltà abissale,
In maschera di virtù guerriera, di amor patrio e di fedeltà a un'idea.

Auschwitz e il Nazismo: il sogno di pochi, la condanna di molti

Auschwitz mette a nudo la crisi di un’umanità corrotta dal razzismo e dalla follia.
E’ fondamentale che tutti sappiano cosa realmente è stato, ma soprattutto che vedano le montagne di cappelli, di occhiali e di scarpe che oggi riempiono i luoghi di vita di questi prigionieri, per capire il reale numero di persone costrette a subire questa tortura, forse più mentale che fisica.
Il nazismo, per poter resistere anni e anni, aveva creato un clima di favoritismi e paure per sfuggire alla nascita di voci e sospetti, comunque limitati anche dal totale controllo dei mezzi di comunicazione. Solo alcuni gruppi si organizzarono per denunciare ciò che stava accadendo, ma queste notizie impiegarono troppo tempo per uscire dalla Germania, cosicché i tedeschi poterono quasi completare la soluzione finale.
La missione di tutti noi è fare tesoro delle testimonianze portateci e a nostra volta divulgare queste informazioni per far sì che tutto questo non vada perduto, ma che rimanga ben impresso nelle menti; soprattutto ora che i reduci di queste deportazioni stanno via via morendo per motivi anagrafici, lasciando così alle generazioni future il dovere di ricordare.
Ancora troppi ignoranti giudicano bene queste azioni e identificano questi momenti come anni d’oro dell’umanità, a volte arrivando addirittura ad invocarne un ritorno; proprio per queste persone, che spesso parlano per sentito dire, servono questi viaggi, con la speranza che possano aprire la loro coscienza ad una maggiore consapevolezza ed intelligenza.
(foto di Confused Vision Photo / flickr.com/photos/confusedvision/)
Simone Zini

L'attore disse: "Io sono Astaroth, angelo caduto che vuole diventare uomo"

Descrivere le emozioni che si provano durante la rappresentazione di uno spettacolo come "Astaroth" è complicato.
Ero io, una primavera fa, attore della compagnia dell'istituto Cattaneo-Dall'Aglio di Castelnovo Monti, sul palco di un teatro della provincia emiliana, a vivere la vita di un angelo caduto che vuole diventare uomo. Vi porto la mia testimonianza, in carne e finzione, indelebile, duratura nel tempo: la grande tensione dei giorni precedenti, il febbrile ripasso del copione, la consapevolezza di dover portare in scena qualcosa di fronte ad un pubblico conosciuto hanno accompagnato un po' tutti nel nostro gruppo. Eravamo tesi, preoccupati del minimo errore, di annoiare il pubblico o di non dare il meglio di noi.
Quello del teatro è un gioco mistico dove nulla è lasciato al caso e tutto assume un significato particolare, fatto di momenti comuni a tutti ma completamente soggettivi allo stesso tempo: le battute degli altri personaggi poco prima del proprio turno; il primo, complicatissimo, passo sul palco; la voce che sembra non voler uscire...
Poi, rapidamente, tutto assume un senso e la realtà cambia: non si è più persone impegnate ad interpretare un personaggio, si è il personaggio. Lo si sente sulla propria pelle ad ogni parola, ogni gesto. Il recitare diventa vivere. Allora il teatro si svela essere quello che è realmente, molto più di qualche trave di legno o un sipario di stoffa.
Chi vive il personaggio lo sente, si accorge che c'è qualcosa di più, perde la consapevolezza del mondo reale e si lascia trasportare dalla sua forza.
Nella semioscurità del teatro si sentono le voci ed i bisbigli del pubblico, lo si percepisce. Ma non lo si vede. E si prosegue. Si continua a vivere il poco tempo a disposizione fino a quando non si sente vicina la fine, il sapore delle ultime battute che avvicina lentamente al termine.
Uno sbuffo di fumo, il cigolare del sipario, la luce che inonda di nuovo la sala e le voci che tornano a farsi sentire riportano alla realtà. L'interprete muore in quel momento, lasciando una parte di sé su quel palco. Ma il personaggio no: lui continua la sua vita all'interno di chi l'ha permessa, sia esso un attore o uno spettatore.
(Disegno di Mitarashi)
Giuliano Gabrini

Nella memoria: un viaggio che scava dentro

Il 27 gennaio 1945 le truppe dell’Armata Rossa abbatterono i cancelli di Auschwitz e rivelarono al mondo intero l’orrore del genocidio nazista. Sessantadue anni dopo si sono commemorate le vittime dell'Olocausto celebrando il Giorno della Memoria.
Il Treno della Memoria è partito e non dovrebbe fermarsi mai più: i ragazzi di un liceo di Castelnovo Monti, in provincia di Reggio Emilia, raccontano le impressioni dalla loro gita, che diventa qualcosa di più di un semplice “viaggio d’istruzione”.
Le visite ai lager di Auschwitz e di Birkenau, luoghi simbolo della Shoah, l’incontro a Cracovia con gli altri ragazzi venuti dal resto d’Europa, le discussioni con i reduci sono ricordi, entusiasmo, stanchezza, commozione. Un viaggio che cambia le persone perché è un viaggio che scava dentro.
“ARBEIT MACHT FREI” significa il lavoro rende liberi, ma dopo solo un passo la speranza di questa frase lascia spazio ad un’incontenibile esplosione di sensi.
Gli occhi si fanno lucidi, mentre invano tentano di catturare in un solo sguardo la vastità di quell’orrore; il naso si impregna di un acre odore di terra, impastata dalla cenere di milioni di numeri che, dopo aver volteggiato nell’aria, si sono riposati lì, dove avevano mosso gli ultimi passi prima di conoscere una morte studiata e organizzata con rigore militare; le orecchie riescono a cogliere solo il frusciare del vento, perché tutt’attorno il mondo sembra immobile; infine la bocca si riempie di parole e grida che però gelano prima di arrivare alle labbra, sopraffatte dall’incredulità e dall’angoscia.
Nonostante questo è impossibile rendersi realmente conto di ciò che è stato: nessuna persona mentalmente sana riuscirebbe ad accettare e realizzare un così enorme eccidio. Per questo chi ha vissuto questa esperienza deve gridarla a tutto il mondo! Ben vengano le lacrime e l’ira a far da contorno ai loro racconti, per testimoniare ancora di più che questi campi miravano ad intaccare prima di tutto la dignità dell’uomo, al punto da portarlo a considerare la morte come un sollievo o, se provocata da altri, un atto di bontà.
(Foto: manifesto dell'iniziativa "il Treno della Memoria)

Simone Zini

Forward: una mattina in corriera, andata

Una mattina, in una località dell'appennino emiliano, sono il primo ad arrivare alla fermata del bus, alle 7:05. In quel momento transitano in auto le ormai facce note, sembrano un po’ assonnate, ma veloci si recano al lavoro a Reggio Emilia.
Dalla curva di Branciglia, nei pressi di Pantano di Carpineti, spuntano i miei amici. Dal passo un po’ sbilenco o dal colore della sciarpa li identifico. Con il suo rumore pesante e la sua mole spunta la corriera delle 7:15. Quando salgo è già affollata di studenti che arrivano da Leguigno e Casina.
Chi non trova il posto a sedere è un po’ imbronciato, come capita a me qualche volta, e allora si lancia lo zaino a un amico più fortunato. È già cominciato lo scherzo e il gioco “Promesse d’amore”, i più timidi arrossiscono e balbettano tra le risate generali. Abbiamo raccolto una testimonianza in diretta: “Io lo subii in prima persona, in prima superiore” racconta una ragazza di Carpineti “Un nugolo di ragazzi dal fondo della corriera mi ha incantonato in un angolo costringendo il loro amico più timido a farmi una dichiarazione d’amore”. L’avventura ha risvolti ancora più inaspettati: “Lo minacciavano di imbrattargli la faccia con un pennarello indelebile se non mi cantava una canzone, mentre io provavo a difenderlo”.
Girando lo sguardo, riconosco altri miei amici, con le chiome arruffate o i ciuffi incollati dal gel. Sui visi ancora giovani, c’è un po’ di barba fatta in fretta; “Brufolo Bill” cerca di nascondersi, voltando il viso al finestrino, al passaggio delle ragazze che salgono. A Felina bisogna stringersi perché arrivano altri studenti. Qualcuno conta i minuti che ci separano dall’arrivo a scuola e sospirando dice: “Tra due ore avrò finito il compito di Matematica”.
Per rilassarsi, qualcuno si stravacca coi piedi sul sedile ascoltando l’ Mp3; per dirla tutta, proprio sinceramente, anche io a volte sono un po’ svaccato. Due miei amici parlano continuamente di computer e giochi, sembrano un disco e qualcuno ridacchia.
Vedo amici assorti con la testa appoggiata sul finestrino, sembrano guardare il paesaggio, ma conoscendoli so che sono preoccupati per un’interrogazione o una verifica.
Cerco anch’io di appoggiarmi al sedile, ma c’è una cicca appiccicaticcia. Davanti a me sono disegnati cuori con i nomi degli innamorati e scritte osé.
C’è un gran vocio che si mescola con le suonerie dei cellulari, all’improvviso tutto un subbuglio e poi immediato il silenzio. Sale il controllore, detto amichevolmente “Gestapo”: tutti scattano con l’abbonamento in mano, qualcuno si fa strada per obliterare il biglietto all’ultimo momento, con la speranza di non essere beccato. Cerchiamo di essere solidali, aiutandoci a vicenda: ormai ci conosciamo tutti, anche una quasi matricola come me che sono solo due anni che viaggio in corriera.
A Castelnovo Monti si arriva alle 7:50, un esercito scende in fretta occupando il marciapiede facendo così irritare l’autista. Mi aggiusto lo zaino e il ciuffo ribelle; un ragazzo cammina con il libro di storia, forse sarà interrogato.
La salita che porta alla scuola è piena di studenti, si sentono ancora risate, vedo ancora qualche viso preoccupato. Nel piazzale ci sono già parcheggiate le auto delle insegnanti che ci aspettano al varco. Giù continua il via vai di giovani: l’ultima corriera è appena arrivata.
(Foto di Sara Fabbiani)
Sebastiano Beretti

Ora lo sappiamo di essere schiavi?

Allora che fare contro i poteri troppo forti e a fronte di sogni irrealizzabili? State pensando all’arrendervi? Tentate di trovare il conforto nell’abbandonarvi alle favole?
Umiliati e offesi. Presi da sconforto e sbeffeggiati. Ignorati e messi a tacere.
Dobbiamo trovare la forza e reagire, dobbiamo fare il possibile perché il sogno incomba pesantemente e travolga i nostri oppressori. Impariamo a combattere, troviamo energia in chi nel passato ci ha provato ed è riuscito a fare qualcosa per cambiare il mondo.
“Uno schiavo che non ha coscienza di essere schiavo e che non fa nulla per liberarsi, è veramente uno schiavo. Ma uno schiavo che ha coscienza di essere schiavo e che lotta per liberarsi già non è più schiavo, ma uomo libero”. Ora lo sappiamo, sappiamo di essere schiavi.
Mutiamo la nostra condizione e viviamo serenamente, non dico felicemente perché sarebbe troppo ambizioso, ma almeno per raggiungere una pacata serenità per ogni individuo. In molti sono diventati eroi provandoci.
Non dimentichiamo mai individui come Alessandro Magno o Ernesto Guevara o Malcolm X o Lenin o Martin L. King o chiunque si sia impegnato per cambiare le cose nonostante l’impossibilità di farlo, con solo in mente un’idea folle, quanto bella.
In molti sono diventati eroi provandoci, prendiamo il buon esempio.
Andrea Herman

Sogno di uguaglianza?

Tentare di cambiare il mondo, provare a distruggere l’insieme di illusioni che si mantengono fragilmente nella paura e nella malata ossessione per il denaro.
Eccentrici snob che dominano paesi e mercati con qualche semplice movimento in borsa, stupidi santoni che credono di salvare il pianeta sviluppandosi sempre di più e continuando ad incrementare il commercio, la produzione, incuranti del fatto che molta gente muore per questo.
Siamo in una situazione che tende al tragico, le risorse energetiche si stanno esaurendo, il pianeta mostra tutto il suo malessere dovuto all’inquinamento sempre più pesante per gli ecosistemi.
Tutti parlano, sparlano e propongono soluzioni inconcludenti su come salvare questo globo o su come migliorare il welfare di chi lo abita.
Andiamo verso una lenta – ma non troppo – autodistruzione e, nonostante ciò, la maggior parte continuerà a dirvi che il capitalismo funziona ed è l’unico sistema possibile, che siamo liberi all’interno di un modello democratico.
Talvolta penso a come si possa cambiare, sogno il modo corretto per arrivare ad un’uguaglianza che rispetti le diverse culture.
Arrivo sempre alla solita conclusione. Ruvida e triste conclusione.
È deprimente ammetterlo, ma oggi come oggi, non può che rimanere un sogno, non può che stanziarsi in qualche umido angolo della mente e morire lentamente insieme alla speranza. Gnomi corrotti invaderanno questo sogno, continuando ad illudervi alterando le parole e facendovi credere che è il mondo più bello che si possa avere.
Non chiamiamola democrazia, ma dittatura borghese, non chiamiamola libertà, ma inconsueta prigionia, non chiamiamolo capitalismo, ma suicidio dell’umanità.
Andrea Herman

domenica 20 gennaio 2008

Kapuscinski moriva il 23 gennaio 2007

Ryszard Kapuscinski ha iniziato la sua carriera di giornalista ad appena diciotto anni, per caso o per destino, quando il direttore di una testata polacca ha scoperto le sue poesie giovanili e lo ha preso a lavorare con lui.
Una professione che non lo ha mai abbandonato – tra i coloriti reportage dalle zone di frontiera e i libri, ricettacolo di ciò che non poteva diventare articolo – fino al 24 gennaio scorso, quando è morto all’età di 74 anni. Anni spesi a raccontare rivoluzioni, guerre, colpi di stato, ma soprattutto a sperimentare un giornalismo umano, che sa rendersi partecipe delle tragedie e delle conquiste della gente, scoprirsi pagina, letteratura.
Viveva con i poveri, non frapponeva nessuna distanza: "Kapuscinski riesce a sparire tra la gente, a farsi prendere ovunque per uno del posto" scrive Maria Nadotti, che ha curato l’edizione de Il cinico non è adatto a questo mestiere. Conversazioni sul buon giornalismo, edito per i tipi di e/o nel 2000. Ha lasciato in eredità la ricchezza e la grande qualità del suo lavoro: racconti di realtà novecentesche da tutto il mondo – soprattutto dall’immenso continente africano, del quale era l’unico corrispondente per l’agenzia di stampa polacca – pezzi di storia nel loro farsi, righe pregnanti dei caratteri, delle atmosfere del mondo, della voglia di entrare in comunicazione con l’altro.
"Il solo modo di far bene il nostro lavoro è scomparire, dimenticarci della nostra esistenza – racconta Kapuscisnki – Noi esistiamo solamente come individui che esistono per gli altri, che ne condividono i problemi e provano a risolverli. Il vero giornalismo è quello intenzionale, vale a dire quello che si dà uno scopo e mira a produrre una qualche forma di cambiamento".
Il cinico non è adatto a questo mestiere, dunque, perché senza empatia non si può nemmeno tentare di raccontare l’altro. E’ un libro intervista di poco più di cento pagine che testimonia la pratica giornalistica ai confini del mondo, un fiato denso di racconti esotici, lezioni di comprensione, ascolto e rispetto dell’altro, sofisticate analisi storiche e politiche della contemporaneità, sensibilità artistica e grande letteratura.
(Foto di Anna Da Sacco / bumerang.it)
Diletta Pignedoli

Rinnovare il giornalismo: l'esempio di Kapuscinski

Le parole di un uomo che ha osato. Ryszard Kapuscinski ha osato andare controcorrente, sfidando la sempre più diffusa tendenza di fare del giornalismo un marketing, non un’arte. Un giornalista che non si è accontentato di assemblare mezze cronache senza calarsi nei fatti, di scrivere per sentito dire o, peggio, rendendo l’informazione un’attraente notizia da vendere.
Con coraggio e dedizione ha cercato di condividere almeno un pezzetto di vita con ogni soggetto dei suoi reportage, per riuscire a cogliere gli umori, apprezzare i valori della gente, respirare il reale vissuto, capire i contesti e dare rilievo alle sfaccettature. Non era un semplice mestiere il suo, piuttosto una missione, per raggiungere i suoi scopi e arricchirsi veramente. Ma quali scopi poteva promettersi e quali ricchezze se, nato da una famiglia povera della Polonia stalinista, non avrebbe potuto possedere né denaro né domini?
Qui sta la differenza con il giornalista-tipo di oggi. Questo uomo voleva veramente dare una nuova vitalità alle storie degli uomini, raccontare il presente e non lasciarlo ignorato. I suoi reportage avrebbero urlato le vicende delle persone senza voce, silenziose, che non hanno il potere di parlare e ribellarsi: le vicende dei poveri. Probabilmente si è trascinato nel corso della sua vita, come un importante patrimonio, proprio la miseria della sua infanzia, a nove anni ancora analfabeta, scalzo per le vie di Varsavia a vendere saponette per comprarsi un paio di scarpe.
Come reagire, davanti all’ingiustizia della povertà e dell’oppressione? Trovando nella "parola incontrollata, in libera circolazione, clandestina, ribelle, senza uniforme, non certificata, terrore dei tiranni (…) il catalizzatore indispensabile" lo strumento di lotta contro il quale il potere si rivela scoperto, senza difesa.
(Foto di Anna Da Sacco / bumerang.it)
Diletta Pignedoli

sabato 19 gennaio 2008

Pensiero Uno: Ryszard Kapuscinski

Un anno fa moriva il reporter polacco Ryszard Kapuscinski, instancabile viaggiatore, giornalista e poeta alla ricerca dell'umanità, ponte vivo tra popoli e culture, difensore del dialogo, testimone delle piccole meraviglie che costellano l'esistenza quotidiana e che lui amava chiamare imponderabilia.
Giornale Howl vuole iniziare il suo cammino ricordando la figura e l'esempio di Kapuscinski, affidandosi agli insegnamenti di cui ha costellato i suoi libri nel tentativo di pensare un nuovo giornalismo.
Del lascito della sua esperienza,
della sua intensa attività, ne scriveremo nei prossimi giorni. Intanto, ne riportiamo un pensiero, il primo di una serie che insieme a quelli di altri scrittori e maestri convocheremo per dare forma e direzione all'urlo creativo.

"Il vero giornalismo è quello intenzionale, vale a dire quello che si dà uno scopo e che mira a produrre una qualche forma di cambiamento" - da Lapidarium

La scrittura tra memoria e cultura

"Scrivere La Realtà" è un laboratorio di giornalismo e di ricerca, per alimentare quella consapevolezza di poter e saper avere, quindi possedere, uno strumento di ascolto e confronto per leggere e affrontare una contemporaneità sempre più complessa. Il primo passo per meravigliarsi è l’incontro con la realtà e con una rinnovata capacità di osservare le cose.
La cultura è temporanea, in continua trasformazione. La comprensione e la spiegazione stanno in questo mutamento. Esse partono alla scoperta consapevoli della radice che le ha sospinte verso il viaggio, lasciano tracce sul percorso che portano una memoria. "Ogni luogo che incontravamo aveva una memoria" ha scritto Mario Rigoni Stern, aggiungendo: "Ogni passo che allontanava era un passa per arrivare".
L'arrivo non è deciso, si costituisce lungo un processo che attraversa le stagioni, la luce del sole, il grigio delle nubi. Eppure si continua a percepire la sua aurea, che invita a coltivare la bellezza della scrittura condivisa, della lettura collettiva. Perchè, lo confermano miliardi di respiri sulla terra, tra il regno vegetale e animale entro cui l'umanità sopravvive - e lo cantava anche Jovanotti - "io lo so che non son solo anche quando sono solo".

Di chi è l'immagine, di chi è la parola?

Un proverbio orientale recita: "Chi di nulla si meraviglia non farà mai nulla di meraviglioso". In un’epoca filtrata dai mass media, che sono diventati il tessuto connettore della nostra esperienza quotidiana, il segreto della meraviglia sta proprio nel riuscire a possedere il linguaggio degli stessi mass media: saperli leggere, comprenderne le espressioni e i contenuti, poterne decostruire e interpretare il senso.
"Il mondo che ci circonda viene ripetutamente e costantemente dischiuso e rappresentato con lenti multiple di testi scritti, orali e audiovisivi" scrive il sociologo inglese Roger Silverstone, una frase che lascia intendere quanto i mass media siano capaci di fare cultura. Si tratta di una potenzialità straordinaria, in cui è centrale il valore della parola. Già Lewis Carrol lo constatava, facendo dire ad un personaggio di "Attraverso lo Specchio e quel che Alice vi trovò", seguito de "Le Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie pubblicato nel 1871, che si chiamava Humpty Dumpty, uovo antromorfizzato seduto su un muretto, esattamente questo: "Quando uso una parola questa significa ciò che voglio che significhi, né più né meno…La questione è di sapere chi è il padrone; è tutto qui".
Ma oggi alla parola è necessario aggiungere l’immagine. Ecco posta, allora, la questione del punto di vista da cui si guarda la propria esperienza e quella altrui. Di chi è l’immagine, di chi è la parola? Qui è dei cittadini del mondo. Howl significa ululato, grida scomposta sotterranea che spinge a realizzare intenzioni creative, a mettere in forma ciò che si percepisce: potrebbe essere una plausibile traduzione di informazione.