Le chiome sono più spettinate, le mani disegnate e con scritte, ricordo di un compito in classe. Qualche volta, alla fermata, vivo la brutta sorpresa di incappare davanti a mia madre, sapendo che prima o poi mi farà un interrogatorio di terzo grado: mi segue con lo sguardo, e allora la mia strategia è fare finta di non vederla e di non conoscerla.
Mi allontano anni luce. Ecco che sbuffando arriva la corriera, la nostra nave ammiraglia. Tutti, correndo e spingendosi, cercano di accaparrarsi il primo posto disponibile, mentre l’autista cerca di mantenere la calma. Vedo qualche faccia stralunata: qualcuno – il più secchione – è deluso per un voto più basso; qualcuno è contento per un successo scolastico ottenuto.
Dagli ultimi posti inizia una sorta di karaoke. Dai finestrini si saluta il fidanzatino o la fidanzatina, che sono ancora sul marciapiede.
Lo stomaco borbotta: non vedo l’ora di mettermi a tavola, già sento il profumo di arrosto che mia mamma ha preparato il giorno prima. Durante il viaggio cerchiamo di non parlare più di scuola, di professori, di interrogazioni; chi invece non ne fa proprio a meno, viene un po’ canzonato.
Nel viaggio, che mi sembra infinito, con altri trovo qualche passatempo: si ascolta musica condividendo l’MP3 con il vicino, si gioca al cellulare, si parla di calcio e c’è chi usa il portatile.
Dopo la curva di Casa Giroldo, nei pressi di Pantano, mi preparo a scendere giacca al vento. Vedo già la panda azzurra di mio padre, sembra un giocattolo: lui canuto e stanco, si aggira con fare sospetto fumando un buon toscano e sorride al mio arrivo.
Sui sedili qua e là ha sparso i quotidiani, bozzetti e fogli che subito sistema per fare posto a me e ai miei amici per riportarci a casa.
Sulla salita di Pianezzo – non vi sbagliate, sempre nei pressi di Pantano – la panda sbuffa e arranco. È proprio il macinino: io lo chiamo così.
(Foto di Sara Fabbiani)
Sebastiano Beretti
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