Una professione che non lo ha mai abbandonato – tra i coloriti reportage dalle zone di frontiera e i libri, ricettacolo di ciò che non poteva diventare articolo – fino al 24 gennaio scorso, quando è morto all’età di 74 anni. Anni spesi a raccontare rivoluzioni, guerre, colpi di stato, ma soprattutto a sperimentare un giornalismo umano, che sa rendersi partecipe delle tragedie e delle conquiste della gente, scoprirsi pagina, letteratura.
Viveva con i poveri, non frapponeva nessuna distanza: "Kapuscinski riesce a sparire tra la gente, a farsi prendere ovunque per uno del posto" scrive Maria Nadotti, che ha curato l’edizione de Il cinico non è adatto a questo mestiere. Conversazioni sul buon giornalismo, edito per i tipi di e/o nel 2000. Ha lasciato in eredità la ricchezza e la grande qualità del suo lavoro: racconti di realtà novecentesche da tutto il mondo – soprattutto dall’immenso continente africano, del quale era l’unico corrispondente per l’agenzia di stampa polacca – pezzi di storia nel loro farsi, righe pregnanti dei caratteri, delle atmosfere del mondo, della voglia di entrare in comunicazione con l’altro.
"Il solo modo di far bene il nostro lavoro è scomparire, dimenticarci della nostra esistenza – racconta Kapuscisnki – Noi esistiamo solamente come individui che esistono per gli altri, che ne condividono i problemi e provano a risolverli. Il vero giornalismo è quello intenzionale, vale a dire quello che si dà uno scopo e mira a produrre una qualche forma di cambiamento".
Il cinico non è adatto a questo mestiere, dunque, perché senza empatia non si può nemmeno tentare di raccontare l’altro. E’ un libro intervista di poco più di cento pagine che testimonia la pratica giornalistica ai confini del mondo, un fiato denso di racconti esotici, lezioni di comprensione, ascolto e rispetto dell’altro, sofisticate analisi storiche e politiche della contemporaneità, sensibilità artistica e grande letteratura.
(Foto di Anna Da Sacco / bumerang.it)
Diletta Pignedoli
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